CAPITOLO II
Libero impiego, regolamentazione e bando

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I problemi legati al coinvolgimento dei civili nel corso di operazioni belliche è materia che preoccupa l’uomo da più di un secolo, ma la specifica trattazione del problema “mine antiuomo” è di recente formazione.

A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati e le Nazioni Unite hanno creato vari Trattati bilaterali e Convenzioni Internazionali per regolamentare l’utilizzo delle armi in tempo di guerra, per controllarne il commercio e per salvaguardare l’integrità delle popolazioni civili. Altrettanto possiamo dire sul piano del Diritto Consuetudinario, dove molte regole, generalmente accettate dalla Comunità Internazionale, sono venute a limitare l’uso indiscriminato di alcuni armamenti e hanno creato norme comportamentali per gli attori della guerra.

Alcuni documenti sottoscritti dalla seconda metà dell’Ottocento, passando per le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e successivi protocolli alla fine degli anni ’70, hanno toccato anche l’utilizzo delle mine terrestri. Bisogna però aspettare il 1980 per vedere un primo tentativo di riordino della materia e si deve arrivare al 1996 per avere una regolamentazione specifica sull’utilizzo delle mine antiuomo. Gli emendamenti al “Protocollo II” della “Convenzione di Ginevra del 1980 sul divieto e le restrizioni all’uso di certi tipi di armi convenzionali che possono essere considerate eccessivamente dannose o possono avere effetti indiscriminati” (CCAC) costituiscono il primo testo internazionale in cui le mine antiuomo vengono separate dalle altre categorie di mine e fornite di una propria regolamentazione. Un tentativo ben più consistente, ma tardivo, rispetto a quanto fatto nel 1980.

L’intera regolamentazione della materia prescinde poi da un dato fondamentale relativo ai conflitti moderni. Come mostrato nel precedente capitolo, la quasi totalità delle guerre si combatte contro le popolazioni civili e non tra eserciti regolari. Se questo dato poteva non essere così evidente nei primi anni successivi la II Guerra Mondiale, non si capisce come sia stato possibile trascurarlo nella regolamentazione più recente, che risulta così di poco interesse per una buona fetta di mondo. 

Nell’ottobre 1996, mentre a Ginevra si ultimava la stesura del testo emendato del Protocollo II, la “Campagna Internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo” dava l’avvio al cosiddetto “Processo di Ottawa”: un cammino rapido e deciso che avrebbe portato, nel dicembre 1997, alla stesura della “Convenzione di Ottawa sul divieto di usare, accumulare, produrre e trasferire mine antipersona e sulla loro distruzione”. Questo testo segna un punto di svolta irreversibile nella trattazione della materia, scavalca completamente le precedenti Convenzioni e sposta l’obbiettivo degli Stati dalla regolamentazione al divieto assoluto di utilizzo delle mine stesse. Il Trattato di Ottawa, come vedremo nelle pagine successive, è un caso storico e unico da diversi punti di vista e rende poco interessante tutta la trattazione precedente della materia proprio per le sue finalità in netta contrapposizione con tutto ciò che lo aveva preceduto. Questa Convenzione sarà la colonna portante di questo capitolo e di gran parte dell’intero lavoro di ricerca.

Il Trattato di Ottawa è entrato in vigore il 1 marzo 1999 e successivamente gli Stati Parte si sono riuniti altre due volte per constatarne lo stato di funzionamento e registrare l’adesione di un sempre più elevato numero di Paesi. Nel corso della trattazione renderemo quindi conto anche di questi due appuntamenti: Maputo (maggio 1999) e Ginevra (settembre 2000).

 

2 . 1 – La regolamentazione delle mine antiuomo

 

2 . 1 . 1 – Il Diritto Internazionale e le mine fino al 1980 

 

Il Diritto Internazionale ha cominciato a regolamentare il comportamento dei militari in tempo di guerra fin dalla seconda metà dell’800. La nascita di questi strumenti rappresenta una nuova convinzione nell’uomo a considerare non più lecito qualunque comportamento, anche nel momento più violento delle relazioni umane, ovvero nel corso di una guerra. Questa convinzione è andata rafforzandosi a seguito delle immani tragedie rappresentate dalle due Guerre Mondiali. La nascita della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi rappresenta il tentativo degli Stati di risolvere le proprie divergenze attraverso il dialogo anziché il ricorso all’uso della forza.

 

Prima del 1980 varie Convenzioni Internazionali e norme di Diritto consuetudinario sono venute a disciplinare il comportamento degli Stati e dei militari nel momento bellico. Particolare attenzione è stata riservata alla tutela dei civili in tempo di guerra, alla protezione di contingenti umanitari dell’ONU o di altre Organizzazioni Internazionali e alla limitazione nell’uso di armamenti particolarmente cruenti. Alcuni di questi strumenti hanno toccato indirettamente la materia delle mine antiuomo, senza però mai darne una disciplina specifica e senza che i loro effetti si facessero sentire sul campo.

 

Il Diritto Internazionale Consuetudinario fornisce almeno quattro strumenti che, pur non riguardando specifici armamenti, potrebbero comprendere il tema delle mine antiuomo. L’uso del condizionale è d’obbligo in questo caso data l’esistenza di pareri discordanti nella giurisprudenza, il che non permetterebbe di considerare tali principi di interesse per questo lavoro; tuttavia il dubbio permane forte. Il Diritto Consuetudinario infatti prevede:

        il principio che venga operata una distinzione tra combattenti e civili (solo i primi infatti possono essere oggetto di attacchi, mentre i secondi godono di immunità) ;

        il principio di proporzionalità (che proibisce attacchi indiscriminati, anche se a obbiettivi legittimi, suscettibili di causare danni eccessivi o perdite tra i civili) ;

        il principio che proibisce  l’uso di armi che procurino sofferenze non necessarie o lesioni eccessive[1] ;

        il principio che prevede il divieto di far uso della perfidia.

 

Il Diritto Consuetudinario ha il pregio di rivolgersi all’intera Comunità Internazionale, rendendo vincolanti per tutti le proprie norme. Non esistendo però unanimità da parte degli Stati né sul lato dell’opinio iuris né su quello della diuturnitas, non rimane che indagare gli strumenti del diritto pattizio per risolvere il contenzioso.

 

Per quanto riguarda il diritto “scritto” troviamo alcuni riferimenti indiretti alle mine antiuomo già nella “Convenzione dell’Aja – 1899”[2] e nella “Quarta Convenzione dell’Aja – 1907”[3]. Nel periodo tra le due Guerre il diritto pattizio non ha fornito nuovi interessanti contributi, concentrando la propria attenzione sul miglioramento delle condizioni dei feriti sul campo di battaglia[4] e sul divieto dell’uso di gas tossici[5].

La fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita delle Nazioni Unite hanno invece prodotto una più corposa regolamentazione nel Diritto bellico, tendente ad evitare il ripetersi dei massacri appena terminati. Le quattro “Convenzioni di Ginevra” del 1949 ed i successivi Protocolli del 1977 forniscono la più importante trattazione mai registrata nella storia relativa alle condizioni dei feriti e dei malati fra i militari (GCI – GCII), al trattamento dei prigionieri di guerra (GCIII), alla tutela dei civili in tempo di guerra (GCIV), alla tutela delle vittime dei conflitti armati internazionali e, novità assoluta, a quelle dei conflitti armati non internazionali (API – APII)[6]. I due Protocolli aggiuntivi modernizzano[7] le Convenzioni del 1949 e mettono per iscritto quei principi del Diritto Consuetudinario che teoricamente vigevano da tempo e che abbiamo visto in precedenza[8]. Di particolare rilevanza l’art. 85 e l’art. 90. Il primo qualifica come gravi infrazioni al Protocollo  gli attacchi contro la popolazione civile, le persone civili e i beni di carattere civile e, al comma 5, sanziona tali infrazioni come crimini di guerra. Il secondo istituisce una commissione internazionale di accertamento dei fatti in violazione del Protocollo. Un tale articolo rappresentava una vera novità nel campo del Diritto Internazionale, andando a intaccare il principio di sovranità nazionale gelosamente protetto dagli Stati (soprattutto quelli poco rispettosi dei diritti umani), tant’è che fu successivamente sottoscritto solo da 49 Governi.    

Questo complesso disegno normativo fornisce reali tutele alle persone, militari e civili, coinvolte in un conflitto armato, ma si limita a regolamentare la materia nelle sue linee guida, senza entrare nello specifico dei singoli problemi e soprattutto, per quanto attiene questo lavoro, senza regolamentare l’uso di specifici armamenti. Gli Stati che hanno concepito le Convenzioni di Ginevra e i successivi Protocolli hanno salutato la loro nascita come un grande atto di civiltà e come una conquista di pace. Ma allo stesso tempo si sono resi conto di come il quadro generale andasse ulteriormente arricchito con interventi settoriali. I lavori del 1977 si conclusero infatti con l’impegno, da parte degli Stati, a dar vita ad un forum di discussione sulle sole armi convenzionali[9]. Proprio questo impegno porterà nel 1980 molti Paesi a sedere al tavolo su cui verrà redatta la “Convenzione sul divieto e sulle restrizioni relative all’uso di certi tipi di armi convenzionali che possono essere considerate eccessivamente dannose o possono avere effetti indiscriminati” (di cui parleremo nel prossimo paragrafo).

 

La materia ora passata in veloce rassegna, mentre può rappresentare un interessante tema di discussione sul piano del diritto, non pare di alcuna utilità nell’analisi pratica degli eventi bellici legati all’uso delle mine. Nessuna di queste norme e dei principi consuetudinari visti ha minimamente condizionato il comportamento dei combattenti sul campo di battaglia. Dopo la fine della II Guerra Mondiale i produttori di mine antiuomo hanno visto aumentare le loro commesse, e la tendenza non è cambiata dopo i due Protocolli del 1977.

Il tema dell’uso delle mine terrestri (fino al 1996) è stato trattato dallo studente Sergio Petiziol della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste[10], nell’ambito di una Tesi di Laurea di Diritto Internazionale. Al momento di tirare le somme sulle Convenzioni di Ginevra del 1949 e successivi Protocolli in rapporto all’uso delle mine, Petiziol scrive[11]:

 

“L’insieme delle disposizioni sopra delineate induce a ritenere che il Protocollo I 1977 rappresenti il migliore strumento finora entrato in vigore in grado di porre effettivi limiti all’esercizio della violenza indiscriminata. Tuttavia i fatti dimostrano che la esistenza di tali disposizioni non ha agito come fattore deterrente significativo nell’uso delle mine nei conflitti recenti nonostante il fatto che numerosissimi stati siano parti del Protocollo I. Purtroppo, fra questi, solo una parte limitata ha sottoscritto gli impegni previsti dall’art. 90 sopra citato”.

 

Il parere di Petiziol sembra assolutamente condivisibile ed è forse fin troppo generoso sul piano del linguaggio.

 

 

2. 1. 2 – La CCAC del 1980 e successivi Protocolli

 

Il 25 dicembre 1977, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò una risoluzione che convocava una Conferenza nel 1979 per regolamentare l’uso di determinate armi convenzionali ritenute eccessivamente invalidanti o causa di effetti indiscriminati. I lavori incominciarono il 10 settembre 1979, con la partecipazione di 82 Stati (numero che sarebbe progressivamente diminuito col passare delle sessioni) e terminarono il 10 ottobre 1980, data di nascita della:

 

“Convention sur l’interdiction ou la limitation de l’emploi  de certaines armes classiques qui peuvent être considérées comme produisant des effets traumatiques excessifs ou comme frappant sans discrimination”[12](CCAC).

 

Nella stessa data furono adottati anche tre Protocolli. Il primo tratta i frammenti non rilevabili ai raggi X; il secondo regolamenta mine, booby-traps e altri congegni; il terzo si occupa delle armi incendiarie. Per la nostra trattazione ci occuperemo del solo Protocollo II.

 

Il testo della Convenzione si compone di un Preambolo e di 11 articoli.

La prima parte enuncia principi già presenti nei Protocolli del 1977, in particolare richiama: la Carta delle Nazioni Unite sul dovere degli Stati di astenersi dall’uso della forza; il principio generale della protezione dei civili dagli effetti di un conflitto armato; i limiti cui i Governi sono sottoposti nella scelta dei metodi di guerra; il divieto di causare male superfluo; il divieto di usare metodi in grado di causare danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente; il bisogno di codificare le regole del Diritto Internazionale.

Il contenuto degli articoli si limita alla regolamentazione degli aspetti tecnici della Convenzione (firma - ratifica - entrata in vigore - lingue ufficiali - ecc.), demandando ai Protocolli la disciplina dei singoli armamenti convenzionali. Vale forse solo la pena di richiamare gli articoli 4.3 e 6. Il primo consente agli Stati di aderire alla Convenzione senza legarsi a tutti i suoi Protocolli. Il secondo è di particolare interesse perché obbliga le Parti del trattato ad inserire la Convenzione nei programmi di studio delle loro Forze Armate.

 

La Convenzione, ad eccezione dell’art.6, non contiene sviluppi significativi rispetto alla situazione del 1977. Le disposizioni contenute nel Preambolo sono assolutamente condivisibili e formalmente condivise dalla generalità degli Stati, ma scarsamente rispettate sul campo di battaglia.

 

Il Protocollo II su divieti o limitazioni nell’uso di mine, booby-traps ed altri congegni è il primo testo giuridico che si preoccupa di fornire definizioni precise alle armi in questione.

Nel corso della discussione preliminare sono state decise le due linee guida fondamentali dei lavori, che avrebbero finito per rendere inutile e ridicolo il testo del Protocollo stesso. La prima consisteva nel limitare la discussione all’uso delle mine, senza occuparsi di produzione, accumulo e trasferimento delle stesse. La seconda  fu quella di optare per la regolamentazione e non per il bando. Quest’ultima decisione è venuta dopo che i delegati al tavolo delle trattative si erano posti tre domande: se le mine causassero sofferenze ingiuste o menomazioni eccessive in rapporto alla loro efficacia militare; se le mine dovessero essere considerate armi che colpiscono indiscriminatamente; se le mine potessero essere considerate intrinsecamente perfide. In sostanza, coloro che caldeggiavano il bando, chiedevano se le mine non dovessero essere già di fatto considerate fuori legge per quelle norme del Diritto Consuetudinario recepite dall’API del 1977, di cui abbiamo parlato in precedenza, ma l’esito della loro domanda fu negativo. La fase preliminare si concluse con ampio accordo sulla considerazione che la funzione primaria delle mine fosse di limitare la mobilità del nemico, per mantenerlo a distanza tattica, usando il tempo intercorrente per predisporre l’impiego di altre armi. La maggioranza dei delegati condivise la considerazione che le mine, pur essendo particolarmente pericolose per i civili, rimanevano armi difensive indispensabili.

Per diverse ragioni di carattere difensivo e militare i delegati dei Governi proposero, per negare l’evidenza, fantasiose formule tipiche del Diritto Internazionale, sprovvisto di giudici e di apparato coercitivo. Basti pensare che il Diritto Internazionale Umanitario classifica come arma ad effetti indiscriminati: quella incapace di distinguere fra obbiettivi civili e militari; e come uso indiscriminato: l’attitudine dei combattenti a non discernere tra obbiettivi militari e civili.

Questa classificazione assomiglia “pericolosamente” alla definizione di mina antiuomo e, anche se mai codificata nel diritto “scritto” prima del 1980, già faceva parte del patrimonio del Diritto Consuetudinario.

 

Il Protocollo si compone di 9 articoli e un Allegato Tecnico[13].

Dopo aver precisato le definizioni delle parole chiave oggetto del testo, il Protocollo vieta l’uso delle mine contro i civili, nelle zone di loro residenza e al di fuori di obbiettivi militari. Disposizioni vanificate dal fatto che i militari possono comunque derogarvi qualora decidessero di affiggere cartelli che segnalino la presenza di mine, disporre sentinelle nelle vicinanze o distribuire avvisi alla popolazione.

Vi è poi contenuta una distinzione tra le mine posate a mano e quelle posate a distanza (ovvero lanciate dall’artiglieria, da razzi, da mortai e mezzi simili o lanciate da un aeromobile). La distinzione è molto importante se si pensa alle difficoltà di individuare la posizione di mine che non sono state depositate direttamente, ma attraverso sistemi più o meno precisi e potenti di lancio, condizionati anche dagli eventi atmosferici al momento del lancio. Le restrizioni su questo secondo tipo di arma sono maggiori rispetto al primo, ma anche queste derogabili con estrema facilità[14].

Una normativa particolarmente stringente è prevista per le trappole esplosive (booby-traps), in cui viene stilata una lista di oggetti che non possono essere trasformati in un’arma pur mantenendo il loro aspetto innocuo (tra cui tombe e oggetti di culto, giocattoli per bambini, cibi, cadaveri umani e animali, ecc.).

L’art.7 si occupa poi della registrazione dei campi minati (ovvero di ciò che non esiste). Molte righe del testo riguardano le modalità di registrazione di tali campi, gli obblighi di informazione tra le parti al termine delle ostilità e le regole di conservazione delle mappe dei campi minati. Con questo articolo il Protocollo scade veramente nel ridicolo: le mine sono armi micidiali proprio perché il nemico non sa dove potrebbero essere state interrate, i campi minati non esistono e non esiste nemmeno un disegno standard di posa delle mine sul terreno, che le renderebbe individuabili e totalmente inefficaci. Le stesse considerazioni valgono anche per l’Allegato Tecnico dove si torna a parlare di “campi minati prepianificati” e loro mappatura.

 

Nella sua Tesi Sergio Petiziol scrive:

 

“L’insieme dei vari fattori esaminati ha determinato uno scarso significato pratico del Protocollo II 1980 e cioè, in ultima analisi, che l’obbiettivo primario di proteggere la popolazione civile dagli effetti indiscriminati ed eccessivamente devastanti dell’uso delle mine e ordigni simili non sia stato finora raggiunto”[15].

 

Ancora una volta il parere è sicuramente da condividere. Infatti molti dei delegati alla Conferenza del 1980 si sono alzati dal tavolo insoddisfatti e consci della necessità di rimettere mano alla materia (cosa che accadrà nel 1994).

Da una parte si è preferita la strada della regolamentazione a quella del bando, dall’altra si sono scritte norme che vietano l’utilizzo delle mine per gli esatti motivi per cui vengono fabbricate: si è cercato, in definitiva, di vietarne la logica, senza vietarne l’utilizzo, il che è francamente assurdo[16].

 

Un altro elemento rende poco efficace il testo del Protocollo II e cioè la definizione di “obbiettivo militare”. Tale definizione è fondamentale per stabilire la legittimità di un intervento. Abbiamo visto in precedenza come solo in presenza di un obbiettivo militare preciso, che risulti di grande importanza per il conflitto, i militari possano dare vita ad azioni potenzialmente in grado di mettere in pericolo le popolazioni civili. All’articolo 2 del Protocollo si trova la seguente definizione:

 

Par –  objectif militaire – , dans la mesure où des biens sont visés, tout bien qui par sa nature, son emplacement, sa destination ou son utilisation apporte une contribution effective à l’action militaire et dont la destruction totale ou partielle, la capture ou la neutralisation offre en l’occurrence un avantage militaire précis .

 

Una definizione di questo tipo vuol dire tutto e niente. Rimane difficile capire dove si trovino i confini di questo articolo e sarà molto facile per chiunque giustificare le proprie azioni con la scusa del “preciso vantaggio militare”, soprattutto su un campo di battaglia dove tutto avviene con estrema velocità e dove sarà quasi impossibile ricostruire i fatti dopo la fine degli scontri.

Il Protocollo II contiene spesso un linguaggio ambiguo, che permette diverse interpretazioni. Il testo sembra scritto per giustificare tutto quanto può accadere sul campo di battaglia e per non mettere i bastoni fra le ruote alle Forze Armate: un problema che si riproporrà anche nel testo del 1996.

 

2 . 1 . 3 – Revisione del Protocollo II - 1996 

 

Dopo quindici anni dalla stesura della CCAC e dei suoi tre protocolli gli Stati sono tornati ad analizzare la questione delle mine. All’inizio degli anni ’90 alcuni fatti si erano già inseriti nella discussione, ma ne riferiremo nei paragrafi concernenti il Processo di Ottawa e le Nazioni Unite. Per una maggiore linearità nella trattazione della materia si preferisce prendere subito in esame il testo emendato del Protocollo II della CCAC.

 

La Convenzione del 1980 prevedeva la possibilità di convocare un’assemblea di revisione su richiesta di una delle parti e sua accettazione da parte della maggioranza. In mancanza di tale richiesta, nel termine di dieci anni dall’entrata in vigore della Convenzione, sarebbe scattato un meccanismo semplificato di convocazione, per cui la richiesta di un solo Stato avrebbe messo in movimento il meccanismo da parte delle Nazioni Unite. Il periodo decennale terminò nel dicembre del 1993 e poco dopo fu l’intervento del governo francese a far convocare l’assemblea di revisione. Intervento accolto con poco entusiasmo dal resto della Comunità Internazionale per lo scarso successo riscosso fino a quel momento dalla Convenzione[17].

 

La prima seduta si tenne a Vienna a partire dal 25 settembre 1995. Due tipi di arma erano nel mirino dei delegati: le mine, in particolare quelle antiuomo, e i laser accecanti.

Vennero inoltre individuate le due lacune più evidenti dei testi del 1980: l’assenza di norme applicabili ai conflitti non internazionali e la mancanza di strumenti di verifica e repressione delle trasgressioni[18].

Già nel corso della prima sessione di lavori fu deciso di mantenere inalterato il testo della Convenzione e fu raggiunto un accordo sulle armi laser accecanti (che oggi costituisce il Protocollo IV alla Convenzione del 1980). La questione relativa alle mine invece raggiunse una posizione di stallo, da cui i delegati sarebbero usciti solo il 3 maggio 1996, quando furono approvati gli emendamenti al Protocollo II.

 

Il testo emendato al Protocollo II si presenta molto più corposo e dettagliato del precedente. Le maggiori novità riguardano :

-         l’inserimento delle definizioni di “mina antiuomo” e “trasferimento” (di mine) ;

-         l’estensione del campo di applicazione ai conflitti non internazionali ;

-         l’introduzione di misure che richiedono l’adozione di norme e procedure penali per chi viola il Protocollo II ;

-         l’attribuzione della responsabilità nella bonifica di un territorio in capo a chi colloca le mine ;

-         alcune misure di cooperazione e assistenza tecnica nello sminamento ;

-         l’aiuto da fornire a missioni umanitarie di ONU, ICRC e alle ONG ;

-         l’istituzione di conferenze annuali sullo stato del trattato.

 

Scorrendo le voci che compongono questa lista, le novità introdotte dal protocollo emendato potrebbero sembrare di grande rilevanza. Il nuovo testo  presenta effettivamente variazioni importanti sul piano giuridico, ma poco va a modificare su quello pratico. Accanto a qualche norma di segno positivo, sono state inserite regole di difficile applicazione e viene mantenuto un impianto che non può stare in piedi per gli stessi motivi che rendevano traballante il suo predecessore del 1980.

È sicuramente positiva l’introduzione delle nuove definizioni di “mina antiuomo”, “trasferimenti” e “zona minata” (pur non essendo stata eliminata quella di “campo minato”), come del resto l’introduzione di quantità minime di metallo nella mina in modo da renderla rilevabile al metal detector.

Tutto il resto dell’impianto è assolutamente irreale, scritto da chi la guerra non l’ha mai vista oppure da chi, conoscendola bene, intendeva predisporre un apposito trattato che non legasse le mani dei combattenti sul campo di battaglia.

Le norme sui conflitti non internazionali sono confuse e lasciano ambiguo il campo d’applicazione; l’idea di un possibile utilizzo delle mine senza però causare ferite superflue viene seguita con ostinazione; il divieto di colpire i civili  è sempre presente; la bonifica delle terre a carico di chi ha posato le mine è totalmente teorica e non esiste  regolamentazione delle mine in tempo di pace, così come non si parla di trasferimento del know how.

Assolutamente inapplicabile è poi tutta la parte dedicata alla segnalazione dei campi minati e ai dispositivi di autodisattivazione e autodistruzione. Il testo è complicatissimo, viene introdotto l’uso di recinzioni, cartelli di colore rosso o arancione individuabili da lontano, nonché l’uso di sentinelle e avvisi alla popolazione. Sul secondo punto, invece, vengono predisposte norme che rendano inattive le mine sul terreno trascorso un certo lasso di tempo, ma nulla dice di chi dovrà assumersi la briga di andare a controllare se tali dispositivi funzionano veramente (il compito non toccherà certo ai fabbricanti d’armi che garantiscono la merce). L’introduzione di questi dispositivi fece parlare di “mine intelligenti” e causò violente proteste da parte di chi si stava impegnando per la loro messa al bando[19].

 

Il Protocollo II, ancora una volta, non poteva funzionare perché tentava di vietare l’uso delle mine per le stesse ragioni per cui vengono costruite; assumeva un parametro assolutamente “occidentale” e “ricco” nell’analisi delle guerre, mentre la maggior parte dei conflitti si combatte in Paesi poveri del sud del mondo; utilizzava un linguaggio militare per disciplinare una materia “falsamente” umanitaria. L’impianto del 1996 tendeva inoltre a trasformare le mine antiuomo in armi altamente sofisticate, così da impedirne l’accesso agli Stati più poveri, che si sarebbero dovuti rivolgere a quelli che disponevano della tecnologia necessaria per produrre quel nuovo tipo d’arma, col grande svantaggio di andare ad aumentare il gigantesco debito su cui prosperano i “Signori del Nord ricco e civilizzato”.

Per avere un esempio delle scappatoie del testo, è sufficiente osservare le innumerevoli volte in cui viene utilizzata la formula “dans la mesure du possible”, oppure “autant que faire se peut” e simili[20]. Si prenda ad esempio l’articolo 3 comma 11:

 

Préavis effectif doit être donné de toute mise en place de mines, de pièges ou d’autres dispositifs qui pourrait avoir des répercussions pour la population civile, à moins que les circonstances ne s’y prêtent pas”.

 

Che rilevanza può mai avere un articolo del genere ?

 

Per quanto attiene al linguaggio militare del trattato si consideri l’articolo 3.a dell’allegato tecnico:

 

Toutes les mines antipersonnel mises en place à distance doivent être conçues et fabriquées de manière à ce qu’il n’y ait pas plus de 10% des mines activées qui ne se détruisent pas d’elles-mêmes dans les 30 jours suivant la mise en place. Chaque mine doit également être dotée d’un dispositif complémentaire d’autodésactivation conçu et fabriqué de manière à ce que, du fait de son fonctionnement combiné avec celui du mécanisme d’autodestruction, il n’y ait pas plus d’une mine activée sur 1000 qui fonctionne encore en tant que mine 120 jours après la mise en place”.

 

Tutto questo meccanismo (ammettendo che funzioni) serve a ridurre al minimo il numero di mine attive trascorso un certo tempo dalla loro posa, ma non c’è obbligo di garantire la totale auto-bonifica di un terreno. Questo a conferma di come militari e fabbricanti d’armi abbiano inteso coprirsi le spalle al momento della stesura di questo testo e a conferma di come lo sminamento militare sia inaccettabile per le popolazioni civili. Ricorre infatti un doppio concetto di sminamento: quello “umanitario” considera bonificata un’area quando la percentuale di mine rese inattive è pari al 100%, mentre quello “militare” si accontenta dell’80%[21].

Interessanti a questo proposito le parole di Sayed Aqa (Agenzia per la pianificazione dello sminamento – Afghanistan):

 

Personne ne sait combien de mines il y a en Afghanistan ou dans le monde. Cela se chiffre par dizaines ou centaines de millions, mais je ne crois pas que quelqu’un le sache vraiment. Ce n’est pas, non plus, l’essentiel. Qu’il y ait, par exemple, une mine ou cent dans cette salle, le résultat sera le même: on ne pourra plus y venir”[22].

 

La trattazione dell’emendato Protocollo II della CCAC non è qui possibile in maniera più diffusa. Dal nostro punto di vista la sua utilità nel bloccare la proliferazione di mine antiuomo è pari a zero e sarà interessante notare quali Stati hanno aderito ai suoi dettami, paragonati ai Paesi che invece hanno optato per il bando. Questo esame lo vedremo al paragrafo 2.2.3.

 

Riportiamo di seguito due pareri esterni espressi sul contenuto dell’emendato Protocollo II del 1996.

ICRC e ICBL[23] ne parlano come segue :

Les travaux de la Conférence se sont poursuivis dans le cadre de deux sessions organisées à Gèneve en 1996. Certaines modifications du Protocole II ont alors été effectivement adoptées, mais ICRC, la Campagne internationale pour l’interdiction des mines terrestres, ainsi que de nombreux gouvernements, ont estimé que les résultats obtenus étaient décevants et inadéquats. Les dispositions élaborées étaient d’une très grande complexité, ce qui faisait craindre qu’elles ne soient pas – ou ne puissent pas être – effectivement appliquées dans la plupart des situations de conflit armé. Rares étaient ceux qui pensaient que le Protocole tel qu’il avait été modifié suffirait à enrayer la prolifération des mines terrestres et, par conséquent, à réduire le nombre de victimes civiles de ces armes”[24].

 

Altra valutazione interessante dell’emendato Protocollo II, viene data da Sergio Petiziol in conclusione del suo lavoro di Tesi:

 

“…si ritiene che, per la sua notevole estensione e per la compresenza nella sua formulazione sia di norme minuziosamente dettagliate che di disposizioni generali, potrà dar luogo a concrete difficoltà nella sua applicazione integrale ed uniforme”[25].

 

Il lavoro di ricerca svolto da questo collega dell’università di Trieste è  condivisibile nella sua totalità. Da parte di chi scrive c’è completa adesione con l’analisi e le conclusioni cui giunge e proprio la sua attenta analisi permette di non soffermarsi troppo sulla trattazione del tema mine antiuomo precedente il Trattato di Ottawa. La Tesi di Petiziol esamina in maniera esaustiva la materia dalla fine dell’800 fino alla seconda metà del 1996, con particolare attenzione alla CCAC e relativi Protocolli. Per chi volesse quindi approfondire l’analisi del Diritto Internazionale Umanitario relativo alle mine terrestri, si consiglia di prendere visione di quel lavoro e della sua ampia bibliografia.

Petiziol dimostra buon intuito e capacità di analisi politica quando conclude con queste parole il suo esame dell’emendato Protocollo II:

 

“Nonostante i pregi poc’anzi riassunti, potrebbe verificarsi una sua parziale ma significativa obsolescenza prematura in quanto al momento in cui il Protocollo fosse riuscito a registrare un largo consenso potrebbe essere già stato superato, de jure e de facto, da un intercorrente accordo fra gli stati favorevoli al bando totale delle mine terrestri antiuomo. Ciò potrebbe avvenire a causa dei lunghi tempi necessari per la sua piena operatività e per il fatto che molteplici e articolate iniziative, finalizzate alla messa al bando totale della produzione, uso, trasferimento, stoccaggio delle mine antiuomo, stanno rapidamente trovando riscontro nella comunità internazionale…”[26]

 

cosa che accadrà puntualmente.

 

 

2 . 2 – La messa al bando delle mine antiuomo

 

La messa al bando delle mine antiuomo[27] è stata raggiunta grazie all’impegno di centinaia di Organizzazioni Non Governative in tutto il mondo.

Dall’inizio degli anni ’90 il loro lavoro ha permesso di portare a conoscenza dell’opinione pubblica le tragedie causate da questi ordigni. Le ONG hanno poi avuto il merito di coinvolgere alcuni Governi nella loro battaglia, creando una commistione che ha rappresentato uno dei pilastri del loro successo.

Molte di queste ONG si sono unite, dando vita al cartello “International Campaign to Ban Landmines” (ICBL), altre invece hanno scelto un percorso solitario, continuando il lavoro nei settori di competenza e promovendo azioni di pressione sui rispettivi Governi e sulle Organizzazioni Internazionali.

Nel caso delle mine antiuomo non sono state le Nazioni Unite a dettare i tempi del processo di pace. L’ONU è stata protagonista dei più importanti cambiamenti sul piano del disarmo e dei diritti umani degli ultimi cinquanta anni, ma in questa circostanza è stata scavalcata e costretta a seguire ritmi molto più forsennati di quelli cui era abituata e dettati da chi non aveva il tempo di aspettare le lungaggini burocratiche della diplomazia internazionale.

Le Nazioni Unite (e lo stesso discorso vale per il Comitato Internazionale della Croce Rossa - ICRC) hanno raggiunto il Processo di Ottawa fin dal principio, ma non ne sono state la fonte ispiratrice. Gli attori protagonisti di questo processo di pace sono stati migliaia di volontari delle ONG sparsi per il mondo e alcuni uomini di governo che hanno abbandonato le abituali logiche di potere per sostenere una battaglia di civiltà, primo fra tutti il Governo canadese.

 


[1] Cfr. J. PICTET in E. KWAKWA – The International Law of Armed Conflict: Personal and Material Fields of Application. – 1992 , p.36.

[2] Seconda Convenzione sulle leggi e le consuetudini della guerra terrestre e annesso Regolamento concernente le leggi e le consuetudini della guerra terrestre. L’Aja 29 luglio 1899.

[3] Quarta Convenzione sulle leggi e le consuetudini della guerra terrestre e annesso Regolamento concernente le leggi e le consuetudini della guerra terrestre. L’Aja 18 ottobre 1907.

Vedi in particolare artt. 22 – 23 – 25.

[4] Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati degli eserciti in campo. Ginevra 27 luglio 1929.

Vedi anche precedenti Convenzioni di Ginevra sullo stesso argomento: 22 agosto 1864 – 6 luglio 1906.

[5] Protocollo per la proibizione dell’uso di gas asfissianti, tossici o di altri gas, e degli strumenti di guerra batteriologici. Ginevra 17 giugno 1925.

[6] Vedi in particolare: API artt. 1 – 35 – 37 – 48 – 50 – 51 – 52 – 54 – 57 – 58 – 85 – 90.

APII artt. 13 – 14.

[7] L’art. 35 API, ad esempio, sancisce che il diritto delle parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato.

[8] Vedi in particolare API artt. 37 – 48 – 50 – 51.

[9] Vedi  Risoluzione n. 22 della Conferenza Diplomatica sulla riaffermazione e lo sviluppo del Diritto Internazionale Umanitario applicabile nei conflitti armati. 1974-77.

[10] S. PETIZIOL –  Il Diritto Internazionale Umanitario e l’uso delle mine nella guerra terrestre –Università degli Studi di Trieste – Facoltà di Scienze Politiche – A.A.1995-96 – Relatore prof. Andrea Gioia – Correlatore prof. Gianluigi Cecchini.

[11] S. PETIZIOL, Ibidem p.87.

[12] Vedi Allegato n. 3.

[13] Vedi Allegato n.4.

[14] Vedi art.5.

[15] S. PETIZIOL , Op.Cit. p.112.

[16] Al momento della Conferenza di Revisione della Convenzione del 1980, la Cina ci fornisce un’ulteriore prova della poca consistenza del documento. Nei lavori preparatori la sua posizione veniva così espressa:

“È necessario sottolineare che la Convenzione presenta diverse lacune a riguardo dell’esercizio del potere di controllo e verifica delle violazioni delle proprie clausole, con un conseguente indebolimento del proprio potere coercitivo. In particolare il protocollo relativo a divieti e limitazioni nell’uso di mine, booby-traps e altri congegni non prevede sufficienti limitazioni dell’uso di tali armi da parte dell’esercito aggressore all’interno del territorio nemico e non definisce in modo adeguato il diritto di uno Stato vittima di un’aggressione a difendersi con tutti i mezzi necessari” da Camera dei Deputati, Servizi Studi – Il problema delle mine antiuomo –, 1994.

L’affermazione è ancora più grave se si pensa che, ancora oggi, la Cina è il secondo produttore mondiale di mine antiuomo. Il pessimo testo del 1980 ha offerto il fianco alle critiche di uno Stato che non aveva la benché minima intenzione di arrivare a una seria regolamentazione del problema e che può addirittura accusare gli altri di scarso attaccamento verso provvedimenti per la pace e il disarmo. 

[17] Nel 1990 ratifiche e adesioni erano ferme a quota 31.

[18] Ciò che non è mai stato preso in considerazione è l’uso delle mine in tempo di pace, altro grosso neo nella regolamentazione della materia dato l’utilizzo che ne viene fatto a difesa dei confini nazionali da parte di molti Paesi.

[19] Cfr. nota 45 paragrafo 3.4.3.

[20] Vedi artt. 3.11 – 5.4 – 9.2 – 10.4 e l’allegato tecnico artt. 1.d – 3.c.i. Cfr. inoltre Protocollo II 1980 art. 8.1 e allegato tecnico art.2.

[21] Sarebbe interessante sapere quante persone entrerebbero nella loro casa se gli dicessero che delle precedenti dieci mine ne rimangono solo un paio nascoste in qualche stanza!

[22] MAECI Canada Guide d’action sur les mines – www.mines.gc.ca p.25. Cit..

[23] Per una visione più dettagliata della posizione di ICBL vedi  International Campaign to Ban Landmines Statement to the First Conference of States Parties to Amended Protocol II of the Convention on Conventional Weapons – Ginevra – 15 dicembre 1999 – presentato da S. GOOSE (Human Rights Watch Chair, ICBL Treaty Working Group) www.icbl.org/statements/ccwstat.html . 

[24] ICRC    Les  mines terrestres antipersonnel – des armes indispensables ?Emploi et efficacité des mines antipersonnel sur le plan militaire – www.icrc.org/icrcfre.nsf/6dc683e716df6159412562c900328ef8/1a28fb3d725e0e0e4125631b00482490?OpenDocument .Cit..

[25] S. PETIZIOL – Op. Cit. p.142.

[26] S. PETIZIOL – Op. Cit. p.143.

[27] Per una cronologia dettagliata di questo processo di pace vedi : www.icbl.org/chronology.html .

 

 

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