CAPITOLO VII
MISURE SPECIFICHE CONTRO LE MINE ANTIUOMO

 

7 . 1 – Ascoltando gli attori di Ottawa

7 . 1 . 1 – Posizioni comuni

L’indagine svolta a diretto contatto con gli attori di Ottawa ha portato a individuare 5 settori di intervento rispetto ai quali esiste unanimità di vedute :

-         universalizzazione del Trattato di Ottawa ;

-         assistenza alle vittime ;

-         sminamento e distruzione degli stock ;

-         assistenza ai programmi di sviluppo socio-economico dei Paesi minati ;

-         campagne di informazione e sensibilizzazione.

I 5 settori vengono citati in tutte le pubblicazioni e in tutti i documenti che si occupano di mine antiuomo.

Le posizioni proposte da Stati e ONG divergono rispetto ai tentativi di ordinare i settori su una scala di priorità di intervento. Leggendo i loro documenti e ascoltando le loro parole si colgono diverse sensibilità e interessi economici che stanno alla base delle proposte operative. Ma la difficoltà di individuare una precisa scala gerarchica nasce anche da considerazioni pratiche, che non precludono la possibilità di un’azione simultanea nei 5 settori, perché le professionalità necessarie a svilupparla sono di diversa natura e nulla vieta che lavorino in contemporanea.

L’aspetto che deve essere garantito da tutti è la trasparenza : nelle scelte operative; nella provenienza e destinazione dei fondi a sostegno dei progetti; nei risultati raggiunti e nelle ricadute pratiche sulle popolazioni dei Paesi minati.

 


                  

L’universalizzazione del trattato è requisito essenziale per il raggiungimento dell’eliminazione delle mine. Per assicurare che nessuno faccia più uso degli ordigni serve una copertura giuridica planetaria, che esprima la reale volontà degli Stati a rinunciare alle mine antiuomo.

Come mostrano gli esempi degli Stati africani citati nel corso delle Conferenze di Maputo e Ginevra, la sola firma apposta sotto un testo di Diritto Internazionale non assicura un effettivo abbandono delle mine e la nascita di un comitato ad hoc sullo stato e l’operatività della Convenzione di Ottawa serve proprio a monitorare il comportamento degli Stati.

La necessità di mettere in atto le disposizioni contenute nel testo è ancora più forte ove si consideri che un trattato serve a disciplinare il comportamento di soggetti che si muovono in un ambito privo di basi solide. La mancanza di tribunali, commissioni di inchiesta e apparati coercitivi capaci di colpire il singolo trasgressore non permette di considerare completa la disciplina in tema di repressione dei comportamenti illegali. Da questo punto di vista è di primaria importanza l’adozione di legislazioni nazionali in esecuzione degli obblighi previsti all’art.9 del trattato.

Un ruolo cruciale per il raggiungimento degli obbiettivi lo stanno giocando i 32 Paesi firmatari che ancora stentano a far pervenire i loro strumenti di ratifica. Questo aspetto costituisce uno dei punti deboli della struttura di Ottawa e viene utilizzato dagli oppositori del bando per metterne in discussione la serietà. L’obiezione degli Stati Uniti a raggiungere il processo di disarmo è sicuramente l’ostacolo maggiore all’universalizzazione del trattato, ma per lo meno è stata espressa con chiarezza. Per contro, il comportamento di quei 32 Paesi e di alcuni Stati Parti del trattato riveste di ambiguità le loro scelte. 32 governi hanno ormai firmato il testo da quasi tre anni e altri, per cui il trattato è già in vigore, non hanno rispettato le disposizioni previste all’art.7, attraverso il quale si sono obbligati a presentare rapporti annuali sulla distruzione delle mine. Non esiste valida ragione a che questi governi non rispondano degli impegni assunti, rendendo coerente agli occhi della Comunità Internazionale il loro impegno contro le mine.

Non si intendono assolutamente negare le difficoltà economiche a carico dei bilanci statali contenute nel testo di Ottawa, ma la lotta alle mine deve essere in cima alle priorità di intervento e, concordando con le parole di Stephen Goose[1], la bonifica delle aree minate è da considerarsi come un investimento e non come una semplice spesa. I Paesi più ricchi, forniti delle dovute conoscenze tecniche e liberi da impegni di bonifica, dovranno intervenire in aiuto dei partner più deboli[2], come sottolineato dal governo svedese[3]. La questione si riduce quindi a una diversa ripartizione delle risorse economiche mondiali, per agire non manca altro che la volontà.

L’universalizzazione del trattato è sostenuta da tutti gli attori di Ottawa, ma non sempre si registrano conseguenti azioni finalizzate al suo raggiungimento. Alcuni governi e ONG si muovono concretamente in questa direzione, mentre altri si limitano a ribadirne la necessità nelle assisi internazionali, assicurando così uno scarso contributo.

Le reazioni al terzo quesito proposto da questo lavoro di ricerca[4] denotano una scarsa attitudine alla pressione politica sui Paesi alleati, ma la collaborazione tra Stati geograficamente o politicamente contigui resta indispensabile per portare nuovi soggetti sotto la bandiera del bando[5].

Sarà particolarmente interessante osservare le reazioni dei Paesi fuori da Ottawa il giorno in cui gli Stati Uniti decideranno di adottare una politica in opposizione alle mine.

Il Trattato di Ottawa non sembra essere l’unico strumento giuridico a disposizione degli Stati per vietare l’uso e la produzione delle mine antiuomo. Più volte, nel corso della ricerca, sono state citate la CCAC del 1980, il relativo Protocollo II e la Conferenza sul Disarmo e in ogni circostanza è stata ribadita l’impossibilità a condividere il parere degli Stati che sostengono questi strumenti.

L’opposizione all’emendato Protocollo II alla CCAC è assoluta, sarebbe anzi da salutare come un successo la sua eventuale cancellazione dal panorama del Diritto Internazionale, perché nella migliore delle circostanze contribuisce solo a rendere più confusa la materia in esame e nella peggiore finisce per fornire un alibi ai silenziosi sostenitori delle mine antiuomo.

La Conferenza sul Disarmo non rappresenta di per sé un foro in contrasto con gli obbiettivi di Ottawa, ma il bisogno di riportare la discussione sulle mine in una sede diversa e più ristretta del Processo di Ottawa non sembra avere altre ragioni che il ridimensionamento del bando e l’estromissione delle ONG dal tavolo delle trattative. Se gli Stati partecipanti all’assise ginevrina sono sinceramente intenzionati ad abolire le mine, potranno beneficiare del fatto che altri hanno già portato a termine un lavoro che loro non dovranno più svolgere ed eviteranno di chiudersi in atteggiamenti omertosi come quello russo[6].

In ogni caso, data la gravità della situazione, qualunque atteggiamento rigido nei confronti degli strumenti giuridici contro le mine non sembra opportuno, perché a pagare sono persone che poco hanno a che fare con le relazioni e la politica internazionali. Non bisognerà permettere che la discussione torni a parlare di regolamentazione e non bisognerà accettare i tentativi di affossare quella che è stata definita “new diplomacy[7], ma qualunque supporto giuridico possa contribuire all’eliminazione delle mine sarà accolto con piacere.

 


            

L’assistenza alle vittime è indubbiamente un tipo di intervento che non può essere subordinato a nessuno degli altri quattro. Di fronte alle vittime non esiste lo spazio di discussione, ma solo quello dell’intervento d’emergenza.

L’assistenza sanitaria deve seguire standard di alto livello e fornire un intervento duraturo nel tempo. Non è possibile impiantare un progetto temporaneo di assistenza sanitaria in aiuto a popolazioni bisognose per poi fare marcia indietro. Non è possibile illudere persone che necessitano di cure, mostrare loro una realtà di cui non hanno mai beneficiato e poi togliergliela all’improvviso. Gli interventi a sostegno delle vittime devono essere accompagnati da progetti che mirano a fornire conoscenze e strumentazione sanitaria ai Paesi minati in modo tale da renderli autonomi, in attesa che i programmi di sviluppo culturale ed economico permettano loro di provvedere all’assistenza medica anche in assenza di un aiuto esterno.

Nella cooperazione allo sviluppo delle aree povere del mondo si è troppo spesso assistito a progetti che concepivano il destinatario come una gigantesca discarica cui recapitare materiale obsolescente. Costruire un ospedale in zone minate non serve a liberarsi di letti arrugginiti, mobili fatiscenti e farmaci scaduti, né serve a meritarsi articoli di giornale da mostrare a colleghi e amici.

Gli interventi sanitari, inoltre, devono perdere quella funzione di attrazione di capitali da destinarsi ad attività terze. Bisogna assicurare la massima trasparenza.

Le operazioni di assistenza devono rispondere al tipo di intervento assicurato da Emergency e richiesto da ICRC.

   


 

Lo sminamento riveste carattere di immediata necessità, ma deve rispondere a parametri di intervento predefiniti e generalmente accettati. Inoltre, dato il giro di affari che potrebbe nascondere, necessita di una trasparenza assoluta.

I programmi di sminamento devono privilegiare aree minate in cui non ci sia il rischio di nuova posa di mine e seguire quei parametri più volte citati nel corso di questa ricerca. Non è accettabile che si proceda alla bonifica di aree desertiche o inutilizzate dall’uomo, quando esistono terre coltivabili, giardini pubblici e strade minati.

Nei Paesi minati servono interventi massicci che si preoccupino di individuare gli ordigni tenendo lontana la popolazione e poi procedano alla bonifica della terra con un preciso ordine di priorità stabilito in base alle necessità dell’intera comunità che vi abita.

 


 

I programmi di sviluppo socio-economico in Paesi minati necessitano una trattazione ben più approfondita di quella riservata ai punti precedenti e che non è possibile sviluppare in questa sede.

Appoggiare lo sviluppo economico e culturale di un Paese uscito da una situazione di guerra agevola il ripristino delle condizioni di vita pre-belliche e svolge anche una funzione preventiva al ripetersi di tali eventi.

La prevenzione sarà tanto più efficace, quanto più i progetti saranno improntati all’eliminazione delle disuguaglianze sociali che rappresentano il denominatore comune di molti conflitti presenti sul pianeta[8].

 


 

Dei programmi di informazione e sensibilizzazione sulle mine si è già più volte sottolineata l’importanza nelle pagine precedenti.

La circolazione delle informazioni e la consapevolezza delle tragedie che si consumano nel mondo sono alla base di qualsiasi processo di miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani. Il discorso portato avanti sulle mine può qui essere esteso a qualsiasi problema che necessiti una soluzione.

Nelle zone direttamente colpite dagli ordigni è stato riscontrato come l’educazione dei più piccoli costituisca la più immediata delle azioni di prevenzione. Diversi modelli di mine sono stati pensati per colpire i bambini; le menti criminali dei progettisti hanno spesso sfornato mine adatte ad attrarre la loro curiosità, né mancano esempi di vere e proprie mine-giocattolo. In questo settore le ONG e i militari dei contingenti di pace svolgono una funzione determinante.

Le parole del governo di Andorra[9] hanno inoltre ben chiarito l’importanza di inserire le mine antiuomo direttamente nei programmi scolastici di qualsiasi Paese al mondo e non solo di quelli minati.

 


 

Questi cinque settori di intervento riscuotono a giusta ragione l’unanimità della Comunità Internazionale. È effettivamente inutile cercare di classificarli secondo un ordine di priorità se gli attori di Ottawa predisporranno programmi di intervento coordinati e basati sulle esigenze delle popolazioni delle aree minate, senza utilizzare i cinque strumenti per rifocillare bilanci statali e familiari.

In definitiva si tratta di vietare universalmente l’uso delle mine, distruggere quelle che già esistono e dare assistenza a chi non farà in tempo a sottrarsi alle loro nefaste conseguenze.

L’azione per l’eliminazione delle mine deve essere concentrata nel tempo presente per raggiungere gli ambiziosi traguardi del Trattato di Ottawa. I governi, la società civile e i singoli cittadini dovrebbero concentrare nei prossimi anni gli sforzi sul piano economico.

Le cifre fornite alla fine del capitolo I mostrano con chiarezza quanto sia onerosa l’attività di sminamento ed è facile immaginare che l’assistenza sanitaria non è certo esente da spese. Ma la situazione non è così drammatica se esiste una reale volontà di intervento e se si pensa alle piccole rinunce sufficienti a produrre grandi risultati :

-         il MAG calcola in $ 300 il costo unitario di sminamento del territorio cambogiano, se togliamo un dollaro ad ogni abitante dell’Italia possiamo quindi eliminare circa 200.000 mine, un dollaro versato dagli abitanti di tutta l’Europa equivarrebbe a 2.000.000-2.500.000 di mine disattivate ;

-         Emergency è in grado di costruire protesi al costo unitario di $ 35, una classe di 35 alunni che decidesse di rinunciare a un dollaro fornirebbe un arto artificiale a una vittima da mina ;

-         in Italia un biglietto del cinema costa £ 12.000, calcolando che un dollaro valga £ 2.000, bastano sei biglietti per costruire una protesi ;

-         mantenendo gli stessi parametri lira-dollaro servono £ 600.000 al MAG per eliminare una mina, in questo caso basterebbero quattro biglietti della tribuna dello stadio Meazza di Milano per salvare le gambe di un giovane calciatore cambogiano.

Questi sono solo piccoli esempi per rendere più tangibili i costi della lotta contro le mine sul piano dell’assistenza medica e dello sminamento.

Esercitarsi a calcolare l’equivalente dei costi degli interventi umanitari secondo parametri di vario genere aiuta a rendersi conto della semplicità ad aiutare chi vive in condizioni drammatiche, soprattutto nei Paesi occidentali ex produttori di mine e votati al consumismo.

In termini di sminamento e assistenza sanitaria, quanto vale una camicia firmata; un biglietto aereo; un minuto di pubblicità televisiva; lo 0,1% della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, lo 0,01% del bilancio di una multinazionale, lo 0,001% del bilancio statale o l’intero prezzo di un cacciabombardiere ?

Le risorse economiche esistono e si tratta di utilizzarle in maniera differente rispetto a come vengono usate oggi.

L’ammontare delle cifre non è il solo problema, perché bisogna anche decidere dove dirigerle. In molti casi si registra un elevato numero di interventi governativi e delle ONG concentrato in singole porzioni di territorio, mentre alcuni Paesi minati finiscono per essere ignorati completamente. L’azione in campo umanitario deve basarsi su parametri diversi da quelli spesso impiegati da presunti interventi di pace, molto attenti ai diritti di popolazioni dalla pelle bianca o ricche di petrolio.

Gli interventi devono essere distribuiti equamente in rapporto al numero di vittime bisognose di assistenza e di mine da togliere dal terreno.

Come osservato da ICRC alla Conferenza di Ginevra, neanche l’attenzione dei mass media costituisce un parametro attendibile delle priorità di intervento. Il ruolo svolto dagli organi d’informazione nella lotta contro le mine è, salvo rare eccezioni, assolutamente minimo, perché le mine lavorano con la precisione di un metronomo, non causano stragi improvvise con migliaia di morti, non rientrano nei discorsi dei Capi di Governo e quindi non forniscono scoop giornalistici.

L’eliminazione delle mine sembra destinata a proseguire il suo cammino senza l’aiuto dei mass media, il compito di informare è rilasciato alle ONG.

A risultati concreti portano invece i grandi appuntamenti internazionali e regionali, in cui i governi desiderosi di manifestare alla Comunità Internazionale le proprie decisioni possono beneficiare di un ritorno d’immagine[10]. Se questa tendenza dovesse continuare, l’organizzazione di tali eventi non potrà che aiutare l’universalizzazione del Trattato di Ottawa.

7 . 1 . 2 – Posizioni divergenti

Nel corso della Conferenza di Ginevra sono stati toccati due temi di discussione particolarmente delicati in grado di indebolire la struttura di Ottawa e l’intera campagna per l’eliminazione delle mine :

-         le mine anticarro con dispositivo antimanomissione ;

-         il comportamento delle Forze Armate impegnate in interventi multilaterali.

Le mine anticarro sono un problema molto controverso ed esistono troppi modelli capaci di funzionare con caratteristiche equivalenti a quelle delle mine antiuomo.

Alla Conferenza di Ginevra il tema è stato sollevato da ICBL e da ICRC, ma non è stato raccolto da nessuna delle delegazioni governative. Altrettanto è accaduto in questo lavoro di ricerca: nessuna domanda specifica sulle mine anticarro è stata proposta ai Ministeri degli Esteri e loro non hanno segnalato spontaneamente il problema.

Gli Stati devono assumersi immediatamente il compito di dare chiarezza alla materia, uniformando le scelte di tutti. Due provvedimenti suggeriti a Ginevra sono di immediata realizzazione: ICBL ha parlato di un elenco puntuale di tutti i modelli di mina anticarro, separando quelle impiegabili da quelle da distruggere[11]; ICRC ha chiesto di riconoscere funzioni antiuomo alle mine anticarro dotate di sensori che rispondono alla sola presenza umana[12]. I due provvedimenti possono trovare rapida soluzione, le sedi migliori per uniformare i comportamenti dovrebbero essere i comitati permanenti sulla distruzione degli stock e sulla messa in atto del trattato. Una soluzione concreta può essere approvata al più tardi durante la Conferenza di Managua 2001.

Gli interventi militari multilaterali necessitano impegni chiari da parte di chi è vincolato al Trattato di Ottawa ed è condivisibile la posizione di ICBL che considera come violazioni del trattato la partecipazione a missioni con Stati che utilizzano le mine, in questi casi l’appoggio dei Paesi vincolati al bando deve essere negato o, in alternativa, vanno estromesse le Forze Armate dotate di mine.

Il problema era stato avvertito da più parti già nel 1997. Solo sette Stati hanno depositato delle “dichiarazioni interpretative”[13] di articoli del trattato al momento della loro adesione, ma ben quattro di queste vertono proprio sulle responsabilità relative alla partecipazione a missioni militari multilaterali. Canada, Gran Bretagna e Repubblica Ceca hanno precisato da subito che non si ritengono responsabili dell’uso di mine da parte degli alleati impegnati in operazioni congiunte. L’Australia ha depositato il documento più dettagliato, ponendosi in una posizione che ha il sapore del disimpegno :

L’Australie entend que, dans le contexte des opérations, exercices ou autres activités militaires autorisées par les Nations Unies ou menées par ailleurs conformément au droit international, la partecipation de la Force de dèfense australienne ou de citoyens ou résidents australiens à titre individuel, à de telles opérations, exercices ou autres activités militaires menées conjointement avec les forces armées d’États non parties à la Convention qui pratiquent des activités interdites en vertu de la Convention ne sera pas, par elle-même, réputée constituer une violation de la Convention.

L’Australie entend que, relativement à l’alinéa a) de l’article premier, le mot –employer –  signifie la pose physique effective de mines antipersonnel et n’englobe pas le fait de recueillir un avantage indirect ou incident procuré par les mines antipersonnel posées par un autre État ou une autre personne. À l’alinéa c) de l’article premier, l’Australie interprétera le mot – assister – comme désignant la participation physique effective et directe à toute activité interdite par la Convention, à l’exclusion du soutien indirect acceptable, comme le fait d’assurer la sécurité du personnel d’un État non partie à la Convention qui pratique de telles activités ; elle interprétera le mot – encourager – comme désignant la demande effective de commetre un quelconque acte interdit par la Convention ; elle interprétera le mot – inciter – comme désignant la participation active à l’utilisation de menaces ou d’incitations pour obtenir l’accomplissement d’un quelconque acte interdit par la Convention”.

7 . 2 – Prendendo spunto dagli attori di Ottawa

Nel corso del lavoro di ricerca sono stati riscontrati alcuni difetti in diversi settori d’indagine la cui soluzione porterebbe un generalizzato beneficio a tutti i processi di pace e di disarmo. Nei prossimi paragrafi ne analizzeremo cinque che sono sembrati particolarmente evidenti.

7 . 2 . 1 – Il linguaggio del Diritto Internazionale

Come abbiamo osservato più volte, il Diritto Internazionale ha bisogno di comportamenti coerenti con gli impegni sottoscritti per rendere più solide le proprie fondamenta. Neanche in ambito nazionale l’esistenza di una legge assicura la sua generalizzata osservazione, a fronte di una minoranza di trasgressori, e la consistenza di un testo normativo si confronta quotidianamente con i comportamenti sociali della comunità verso cui è indirizzato. Ma in ambito nazionale la divisione delle competenze tra chi scrive e chi applica una legge è chiara, mentre per la Comunità Internazionale i meccanismi interpretativi e punitivi sono rilasciati alla buona fede dei propri attori.

La situazione si aggrava ulteriormente quando vengono redatti testi che si prestano a molteplici interpretazioni e che accolgono formule ambigue capaci di svuotarli di senso.

Parlando della CCAC e relativi protocolli[14] abbiamo sottolineato l’inconsistenza di formule giuridiche dettagliate che si concludono con affermazioni del genere “ove ciò sia possibile”. Queste quattro parole da sole tolgono efficacia a qualunque disposizione normativa in ambito internazionale, perché la reale possibilità a conformarsi agli obblighi assunti sarà giudicata dagli stessi soggetti che li avranno trasgrediti. Il diritto dispone di molte altre garanzie a difesa di chi è stato costretto a violare una norma e le relazioni internazionali testimoniano di una scarsa propensione degli Stati a mettere in discussione la parola degli altri soggetti del Diritto Internazionale. Non è quindi necessario inserire formule ambigue nei trattati e nelle convenzioni internazionali, gli Stati sono già ampiamente protetti.

Un chiaro esempio di inconsistenza degli impegni assunti è dato dalla dichiarazione rilasciata dal governo greco (altrettanto ha fatto la Lituania) al momento della firma della Convenzione di Ottawa:

La Grèce souscrit pleinement aux principes consacrés par [la dite Convention] et déclare qu’elle la ratifiera dès que les conditions nécessaires à l’application de ses dispositions pertinentes auront été réunies ”.

Un trattato multilaterale deve essere sottoscritto quando esiste la volontà di attenersi agli obblighi che dispone, sostenuto da un linguaggio chiaro e conciso.

Il Diritto Internazionale è una giovane e nobile disciplina che si basa sulla collaborazione molto più che sulla coercizione e deve essere sostenuto con forza da chi lo riconosce come una conquista di civiltà dell’età contemporanea.

7 . 2. 2 – La gelosa custodia dei confini nazionali

Il principio di sovranità territoriale è alla base dello Stato moderno e ha permesso di edificare le strutture istituzionali che regolano la vita sociale. Ma la sovranità si trasforma spesso nella gelosa custodia dei confini nazionali al fine di tenere lontani occhi indiscreti e operare fuori da ogni regola sul proprio territorio, magari in violazione dei Diritti Umani. Questo stato di cose non può essere accettato. È compito della Comunità Internazionale farsi garante dei diritti più elementari di ogni uomo al di là della sua nazionalità.

Bisogna rifiutare atteggiamenti che impongono di guardare solo al proprio Paese senza la possibilità di sindacare e di ottenere informazioni su quanto avviene al di là di una linea, spesso tracciata in modo arbitrario, chiamata confine.

La Comunità Internazionale e le Nazioni Unite dovrebbero lavorare in questa direzione, ma se ne ricordano solo quando interessi politico-economici lo richiedono o quando i riflettori della stampa lo impongono. In questo modo si decide di intervenire nel Kosovo e si lasciano al loro destino il Chiapas e il Kurdistan, tanto per fare un esempio[15].

7 . 2 . 3 – I soggetti estranei al Diritto Internazionale

Landmine Monitor 2000 ha accertato l’impiego di mine antiuomo da parte di oltre trenta gruppi di ribelli nel corso dell’ultimo anno. Questi soggetti sfuggono alle disposizioni del Trattato di Ottawa anche se provengono dal territorio di uno Stato che vi ha aderito, visto che proprio contro quello Stato portano avanti la loro ribellione.

Le guerre attualmente in corso sul pianeta, inoltre, sfuggono alla definizione giuridica di conflitto internazionale, identificandosi con i termini di “guerriglia”, “guerra civile”, “insurrezione”, “torbidi interni”, ecc.. In questi casi la politica deve intervenire dove il diritto non può arrivare.

Eliminare le mine antiuomo sarà un primo passo fondamentale per prevenire queste situazioni, togliendo la materia prima ai suoi utilizzatori, ma la mina è un’arma elementare da costruire e facile da nascondere. Gli attori della politica devono trovare un terreno di dialogo con i gruppi armati che operano al di fuori della legge.

Anche in questa circostanza, ogni posizione rigida e di chiusura deve essere rigettata. Le istituzioni di governo e quelle militari rifiutano spesso un dialogo con forze ribelli per non fornire legittimità alla loro posizione e preferiscono catalogarli sotto l’ampia voce di “criminali”. Qui non si intende discutere l’operato di alcun gruppo di ribelli, né le ragioni che stanno alla base della loro lotta, ci si limita a ricordare che l’uso delle mine finisce sempre per colpire donne, anziani e bambini e questo è motivo sufficiente a sostenere i tentativi di accordo tra fazioni in lotta.

7 . 2 . 4 – I confini della campagna contro le mine

La forza di tutte le campagne contro le mine antiuomo si è basata sulla chiarezza e immediatezza del messaggio che veniva lanciato. I programmi di intervento hanno portato a risultati più rapidi laddove si è chiesto di bandire le mine senza introdurre altri armamenti nella discussione. La campagna contro le mine deve proseguire con questo unico obbiettivo fino alla definitiva eliminazione degli ordigni; parallelamente e successivamente si possono sostenere tutte le campagne di disarmo che si ritengano opportune, ma senza confonderle a quella contro le mine.

Questa opinione non viene espressa come regola fissa di tutti i processi di disarmo, si tratta della semplice constatazione delle ragioni di un cammino tanto rapido seguito dalle mine.

In questo senso è da considerarsi poco opportuno l’intervento dei rappresentanti della Campagna italiana per la messa al bando delle mine antiuomo visto al paragrafo 3.4.3, mentre è da condividere la posizione espressa da ICBL in occasione della Conferenza di Ginevra. In quella sede, infatti, Stephen Goose non ha mai introdotto nei suoi interventi armi diverse dalla mina antiuomo, mentre nel corso di un appuntamento collaterale dedicato alle Cluster bombs, ha espresso la sua totale opposizione a queste armi solo dopo aver chiarito all’auditorio che in quel momento parlava in qualità di rappresentante di Human Rights Watch e non di ICBL.

7 . 2 . 5 – Il volontariato 

Gli operatori delle ONG hanno responsabilità maggiori di quelle della classe politica. Il volontariato nel settore umanitario non è un hobby con cui occupare il tempo libero, né uno strumento per lavarsi la coscienza. 

Chi opera all’interno di un’ONG ha scelto di dedicarsi a un’attività, senza nessuna imposizione dall’alto, per questo il suo impegno deve essere maggiore rispetto a quello di una classe politica che deve affrontare tanto le questioni volontariamente poste sul terreno, quanto quelle che non aveva previsto di incontrare.

I governi intrecciano rapporti di collaborazione con le ONG, ma non possono delegare al volontariato questioni socialmente rilevanti, ma economicamente non remunerative e le ONG devono attivare l’opera delle istituzioni senza però caricare su di esse l’intera realizzazione dei progetti.

Le iniziative delle ONG devono essere dettagliate, indicando costi, tempi, contenuti e luogo di un intervento umanitario, alla fine del quale dovranno relazionare sui risultati raggiunti. I progetti delle ONG non devono mai essere finanziati al 100%, perché è compito delle stesse impegnarsi in prima persona per raccogliere parte dei fondi. Allo stesso modo è da considerarsi poco opportuno il sostegno economico assicurato alle associazioni di volontariato senza la precisa indicazione del progetto da realizzarsi con le somme versate.

Le istituzioni hanno la pessima abitudine di elargire finanziamenti a pioggia nelle casse delle ONG che ne fanno richiesta, senza discriminare tra i progetti presentati e con la speranza di non scontentare nessuno. Questa politica contribuisce soltanto a rendere irrealizzabili i progetti più seri e a ingrassare le tasche dei lestofanti, presenti nel volontariato come in ogni altra attività umana. Le istituzioni pubbliche dovrebbero assumersi la responsabilità necessaria a fare scelte mirate.

Il discorso non cambia per l’attività di quelle ONG che assicurano il proprio sostentamento al di fuori dei canali istituzionali, rivolgendosi ai cittadini e alle istituzioni private. Il ragazzino che sottrae qualche banconota alla sua paghetta settimanale ha il diritto di vedere impiegati i suoi soldi nel modo che gli è stato promesso; finanziare un’organizzazione che non spiega e dimostra il suo operato indebolisce il settore umanitario.

Nel volontariato confluiscono spesso persone che considerano la propria attività meritoria in sé, senza bisogno di valutarne l’efficacia tra gli obbiettivi promessi e i risultati raggiunti. Questo modo di pensare è assolutamente deleterio, nessun operatore del volontariato è “buono” in sé. Quando un’ONG presenta un progetto sanitario, agricolo o educativo in un Paese povero ha il compito di portarlo a termine, la sua parziale realizzazione è un fallimento e non un risultato un po’ meno positivo di quanto preventivato.

Chi scrive opera nel volontariato e queste affermazioni vengono riportate con il massimo rispetto per il lavoro delle ONG, ma non c’è niente di più negativo dei danni procurati da chi si è presentato con l’abito del buon samaritano.

I danni sono causati sia dalla superficialità, che dalle cattive intenzioni di chi opera in questo settore e bisogna stare molto attenti e avere il massimo rispetto per le culture presso le quali si interviene. Nel passato la cooperazione allo sviluppo e gli interventi di volontariato hanno contribuito a distruggere sistemi sociali che regolavano da secoli la vita di piccoli villaggi in un regime di economia di sussistenza.

Il volontariato è un’attività molto nobile, ma deve stare molto attento a quello che fa, perché mentre gli attori della Comunità Internazionale rispondono singolarmente delle proprie azioni e fanno molta attenzione a non giudicare l’operato degli altri, per qualche strano motivo, l’errore di una singola ONG getta cattiva luce su tutti gli altri operatori del settore.

Un’ultima considerazione è relativa all’utilizzo delle nuove tecnologie da parte delle ONG. Il discorso potrebbe in realtà essere esteso a tutte le attività umane, ma riveste particolare importanza in questo settore.

La rete internet è stata, ed è tuttora, il mezzo di comunicazione più efficace, rapido ed economico per la lotta alle mine. Con il solo ausilio di un computer e di un telefono è oggi possibile accedere a informazioni, documenti e immagini che fino a qualche anno addietro non potevano essere raggiunti se non grazie alla benevolenza di chi controlla i classici mezzi di comunicazione. Ma la rete internet si sta velocemente trasformando in una gigantesca discarica dentro la quale è poi difficile ritrovare quello che serve.

Inserendo “mina antiuomo” in un qualunque motore di ricerca i risultati che si ottengono sono sorprendenti sul piano quantitativo, ma pessimi su quello qualitativo. Il motore di ricerca rileva decine di migliaia di siti che effettivamente trattano del problema mine, ma la gran parte del materiale così reperito è quasi sempre vecchio o non è possibile stabilirne la fonte di provenienza. L’invito è quello di inserire documenti chiari, che permettano di rendersi conto di chi si nasconde dietro una sigla e di aggiornare i vari siti periodicamente, eliminando i “fogli” sparsi di dubbia provenienza. Per chi si volesse avvicinare al problema mine, oggi internet rischia di rappresentare più un ostacolo che non un accesso facilitato. 

 


 

[1] Cfr. paragrafo 6.2.2.

[2] Due esempi concreti della collaborazione fra Stati nella distruzione degli stock (relativi a Giordania e Ucraina) si possono trovare in MAECI Canada – Passage – Primavera-Estate 1999 – n.9 – p.10 – cit..

[3] Cfr. paragrafo 3.2.9.

[4] Cfr. paragrafo 3.2.3.

[5] Cfr. paragrafo 6.1.

[6] Cfr. paragrafo 3.4.2.

[7] Cfr. paragrafo 4.4.

[8] Vedi KOFI ANNAN – Affrontare la sfida umanitaria. Verso una cultura della prevenzione – testo pubblicato come Introduzione al Rapporto Annuale del Segretario Generale delle Nazioni Unite sul Lavoro dell’Organizzazione – Settembre 1999.

In un passo del testo Kofi Annan scrive: “Le cause della guerra sono per loro natura, più difficili da spiegare rispetto a quelle degli eventi naturali. Il comportamento sociale, infatti, non è soggetto a leggi fisiche come i cicloni o i terremoti: i popoli creano la propria storia, spesso violentemente e a volte inesplicabilmente. Per questo, il rapporto fra cause ed effetti è complesso e multidimensionale e muta di guerra in guerra, spesso in modo sostanziale.

Possiamo comunque identificare alcune condizioni che aumentano le probabilità di guerra. Negli ultimi anni, ad esempio, i Paesi poveri hanno dimostrato d’essere più propensi di quelli ricchi a entrare in guerra; ma la povertà in sé non sembra essere il fattore decisivo: alcuni Paesi poveri, infatti, sono soliti vivere in pace.

Uno studio terminato di recente dall’Università delle Nazioni Unite dimostra come i Paesi in guerra di norma soffrono anche di disuguaglianze interne fra gruppi sociali; e sembra essere questo, più che la povertà , il fattore critico. L’ineguaglianza può essere basata sull’etnia, la religione o sul reddito, ma tende a manifestarsi come una diversa possibilità di accesso al potere politico, che troppo spesso preclude la strada a cambiamenti pacifici”.

[9] Cfr. paragrafo 3.2.8.

[10] Anche l’accordo congiunto Ecuador-Perù di sminamento delle frontiere è stato annunciato in una sede pubblica e alla presenza di tutti i partner americani: Seminario Regionale sulle mine antiuomo – Messico 11-12 gennaio 1999 – Vedi MAECI Canada – Passage – Primavera-Estate 1999 – n.9 – p.8 – cit..

[11] Cfr. paragrafo 6.2.2.

[12] Cfr. paragrafo 6.2.3.

[13] Le dichiarazioni sono consultabili alla “UN Treaty Collection”, sezione a pagamento del sito internet delle Nazioni Unite www.un.org .

[14] Cfr. paragrafo 2.1.3.

[15] Scrive il Segretario Generale delle Nazioni Unite: “La sfida umanitaria diventa ancora più pressante per il fatto che la comunità internazionale non risponde in maniera coerente alle emergenze umanitarie. Parte del problema è costituito dal comportamento dei media. La crisi del Kosovo, ad esempio, è stata coperta fino alla saturazione. Guerre più cruente e di durata maggiore, quali quelle fra Etiopia ed Eritrea e la selvaggia guerra civile angolana hanno invece suscitato un interesse molto minore. Per non parlare di altri conflitti, dei quali non viene riferito quasi nulla. È mia ferma convinzione  che questo tipo di assistenza non debba essere fornita in base alla copertura media, alla politica o alla geografia: suo unico criterio dev’essere il bisogno umano”. KOFI ANNAN – Op. Cit..